Non ci sono parole sufficienti per descrivere l’orrore che proviamo per il massacro di oltre 130 giovani afrodiscendenti poveri uccisi dalla polizia di Rio de Janeiro, con la scusa di combattere il narcotraffico.
Si è trattato di un’operazione di guerra urbana in cui il governo dello Stato ha mobilitato 2.500 poliziotti militari armati come in guerra, oltre a blindati ed elicotteri per attaccare i complessi delle favelas Penha e Alemao nella zona nord della città, un’area con un’alta concentrazione di popolazione povera. Si tratta di due complessi di favelas che superano i 150 mila abitanti, con un’enorme densità di popolazione.
Il governo di Rio ha dichiarato che ci sono stati 60 morti, ma la popolazione delle favelas ne ha riportati, nelle piazze più di 50 che non figuravano nel conteggio ufficiale, lasciando il dubbio su quanti siano stati uccisi. Finora il numero supera i 120.
Le reazioni non si sono fatte attendere, dalle organizzazioni per i diritti umani alle Nazioni Unite, che si sono dette “inorridite” dal massacro. Al di là dei dati, ci sono fatti rilevanti.
Il genocidio palestinese a Gaza è lo specchio in cui devono guardarsi i popoli e le persone oppresse del mondo. Per chi sta in alto, si apre un periodo di caccia indiscriminata alla popolazione “ai margini”, perché hanno la garanzia dell’impunità. Ora più che mai, Gaza siamo tutti noi. Può essere Quito, San Salvador, Rosario o Tegucigalpa; il Cauca colombiano o Wall Mapu; forse la montaña di Guerrero o le comunità del Chiapas. Ora siamo tutti nel mirino di un capitalismo che uccide per accumulare più rapidamente.
Dicono narcotrafficanti con la stessa insensibilità con cui chiamano palestinesi, mapuche o maya. Sono solo scuse. Argomenti per le classi medie urbane. Ma la storia recente ci dice che stanno creando laboratori per il genocidio.
Nel tranquillo Ecuador, quando le popolazioni li hanno sconfitti nella rivolta del 2019, chi sta in alto ha reagito liberando i criminali dalle carceri trasformate in luoghi di sterminio, dove i media mostravano i detenuti che giocavano a calcio con la testa di un decapitato.
Nel Cauca, l’estrazione mineraria a cielo aperto e la coltivazione di droga hanno esacerbato la violenza paramilitare contro le comunità Nasa e Misak che resistono e non si arrendono, rendendo la regione la più violenta di un paese che già lo era di per sé.
Nel territorio mapuche, come in Cile ed in Argentina, i poteri hanno deciso che chi non si sottomette deve essere definito “terrorista”, con il risultato che oggi ci sono più prigionieri mapuche che sotto le dittature di Pinochet e Videla.
In Messico tutto è chiaro, talmente chiaro che i media e i governi non vogliono farcelo vedere, mascherando la violenza con discorsi che non fanno altro che sottolinearne la loro complicità. La violenza sistematica nel Guerrero ed in Chiapas dovrebbe essere motivo di scandalo.
A Rio de Janeiro, un sociologo ha spesso sottolineato che il cartello narco non è uno Stato parallelo, ma lo Stato realmente esistente, compresi tutti i governatori degli ultimi decenni, con il loro entourage di imprenditori mafiosi, deputati e consiglieri comunali che costituiscono un potere ereditato dagli squadroni della morte della dittatura militare.
Gaza ci pone in una situazione diversa, di fronte a ulteriori sfide. La prima è comprendere che la morte è la ragion d’essere del sistema capitalista. La seconda è capire che tale sistema è composto dalla destra e dalla sinistra, dai conservatori e dai progressisti. La terza è che dobbiamo organizzarci per proteggerci da soli, perché nessuno lo farà per noi.
Il mondo che abbiamo conosciuto sta crollando. Piangiamo quei giovani uccisi a Rio, quei corpi distesi sull’asfalto.
Trasformiamo le nostre lacrime in fiumi di indignazione ed in torrenti di ribellione.
Raul Zibechi